La valutazione della politica di contenimento della pandemia COVID 19 rischia di essere dimenticata o, peggio, di essere distorta dalla strumentalizzazione politica, a causa delle radicalizzazione comunicative tipiche di una campagna elettorale.

Eppure, in tema di bilanciamento tra diritti costituzionali, è uno dei temi certamente più sensibili e controversi che le democrazie liberali si siano trovate a fronteggiare; con da una parte la necessità di tutelare il diritto alla salute individuale e collettivo, in esso compresa la funzionalità complessiva delle strutture sanitarie, e, dall’altra, quasi tutte le libertà fondamentali, da quella alla libertà individuale, a quella di movimento, a quella di riunione, all’inviolabilità del domicilio; con incursioni sul terreno del diritto a non subire trattamenti sanitari coattivi, del diritto allo studio e del diritto al lavoro.

Si passa dall’eccesso di chi, con ruoli istituzionali di vertice, ha affermato che l’esperienza di compressione generalizzata delle libertà in vista della realizzazione di un comune fine superiore possa essere analizzata come laboratorio per la migliore implementazione da parte del governo delle proprie politiche sociali ed economiche a chi ha rifiutato le ragioni scientifiche che supportavano la scelta del piano vaccinale di massa, ipotizzando arditi complotti per compromettere la salute delle popolazioni del mondo o consentirne un controllo capillare.

Da un punto di vista scientifico, ovviamente, ciascuno può formarsi, in base alle relazioni degli esperti del settore, una propria convinzione ed è libero di ritenerla fondata, sia essa coerente con le conclusioni scientifiche maggioritarie sia essa totalmente discordante da esse.

Per poter affrontare gli aspetti giuridici della gestione della pandemia, io mi limito a riferire quale è la mia convinzione personale e quali sono state le mie scelte personali, per consentire a chi legge di valutare l’influenza sulle mie riflessioni tecniche di eventuali bias personali sulla materia.

Io ritengo che il vaccino, con la percentuale di rischio personale che ogni vaccinazione comporta, abbia, da un lato, consentito di diminuire in modo significativo la percentuale di rischio di contrarre la malattia e, dall’altro, abbia certamente grandemente ridotto gli effetti negativi del virus sul nostro organismo.

Non ho avuto nessun dubbio, né personale, né in relazione ai miei familiari, sull’opportunità, se non la necessità, di fare ricorso alla vaccinazione, alla quale mi sono quindi sottoposto volentieri, compresa la terza dose di richiamo, nei tempi e con i modi offerti da coloro che avevano il difficile compito di affrontare l’emergenza.

All’esito del percorso vaccinale, quindi, ho ricevuto direttamente sul mio cellulare il Green Pass che ho regolarmente utilizzato per fruire di tutti i servizi per i quali era considerato necessario.

Nonostante questo ho, dopo tempo, contratto il COVID 19, che ho superato senza particolari difficoltà, restando convinto che la vaccinazione mi ha protetto da conseguenze più gravi e di aver fatto, quindi, la scelta giusta.

Ho anche considerato, sul piano più generale, che, come in ogni altra circostanza nella quale devono essere affrontati temi scientifici non consolidati, il Governo aveva il dovere di conformare la propria condotta e adottare le proprie scelte sulla base delle valutazioni scientifiche che, allo stato, appaiono più autorevoli e maggioritarie, e quindi del tutto condivisibilmente ha scelto di promuovere una campagna vaccinale di massa.

Non c’è dubbio che la straordinaria emergenza e, in parte, anche la paura di dover affrontare un mostro sconosciuto che iniziava a mietere vittime quotidianamente, però, ha portato chi ha avuto la responsabilità di affrontarlo nel primo momento a reazioni scomposte a, a volte, macroscopicamente sbagliate, la cui individuazione e la cui analisi non deve servire a cercare responsabilità, ma sarebbe imprudente omettere perché indispensabile ad imparare cosa per il futuro andrebbe o non andrebbe fatto nell’affrontare sempre possibili nuove emergenze.

Si è passati, infatti, dall’iniziale sottovalutazione, scambiando gli allarmi, che iniziavano ad essere lanciati dai territori, addirittura per prese di posizioni razziste contro i popoli asiatici, tanto che il Presidente della Repubblica si sentì in dovere di andare a visitare una scuola elementare frequentata da bambini orientali, in gran parte cinesi, e il responsabile di un grande partito politico partecipò personalmente e pubblicamente a una movida serale molto frequentata in una grande città della Regione nella quale aveva iniziato con maggiore vigore a diffondersi il virus, con l’intento di tranquillizzare la popolazione rispetto alla pericolosità dello stesso, ma ottenendo l’effetto opposto perché, oggi possiamo dire fortunatamente, dato che la malattia non ebbe su di lui serie conseguenze, proprio in quella serata contrasse egli stesso il virus e diede pubblica dimostrazione della necessità di considerare l’epidemia da COVID 19 come una minaccia seria e concreta; si è trascurato di guardare il piano di emergenza contro le epidemie, non verificando né se esso era stato correttamente aggiornato ( e non lo era, tanto che si è preferito “falsificarne” la data di adozione sul sito web del Ministero) nè, se, pur superato, fosse stato comunque correttamente posto in esecuzione ( e non lo era, tanto che non vi era neppure la disponibilità dei presidi sanitari minimi per affrontare qualsiasi tipo di epidemia, a cominciare dai guanti, dalle mascherine e dalle tute di protezione per il personale ospedaliero); sino a giungere, stando alle risultanze di una nota inchiesta giornalistica andata in onda a più riprese su una rete nazionale pubblica, ad ostacolare la diffusione di un rapporto tecnico elaborato dalla sezione nazionale dell’OMS che segnalava l’inadeguatezza del piano di emergenza italiano sol perché il Vice Direttore dell’OMS ( italiano) temeva che ciò avrebbe potuto procurare disagio al Ministro della Salute, appartenente alla parte politica che ne aveva promosso la nomina presso l’istituzione internazionale, oltre, probabilmente, al fatto che gravava proprio su di lui personalmente, nella sua precedente esperienza di Direttore Generale del Ministero della Salute, la responsabilità del mancato aggiornamento del piano epidemico; si ricorderà anche che la stessa inchiesta giornalistica ha poi fatto conoscere che ai ricercatori OMS fu vietato di divulgare il loro studio e fu anche impedito di essere ascoltati dalla Procura della Repubblica di Bergamo, opponendo l’OMS l’immunità dalla giurisdizione spettante agli appartenenti a tutti gli organismi delle Nazioni Unite, compresa l’Organizzazione Mondiale della Sanità; si sono vietate le autopsie, per il timore di favorire il propagarsi dell’epidemia, così comprendendo con molto ritardo quali erano gli effetti del virus sull’apparato polmonare e come la cura ipotizzata con l’ossigeno per intubazione fosse in gran parte dei casi controindicata; si è per lungo periodo sconsigliato l’uso di qualsiasi farmaco ( strategia della “Tachipirina e vigile attesa”) impedendo la possibilità di contrastare gli effetti del virus sull’organismo; si è per lungo tempo vietato addirittura di eseguire i tamponi per accertare la positività al virus, se non si avevano già sintomi significativi della malattia e quindi un suo stato avanzato , o di accedere per le cure in ospedale o presso cliniche ed ambulatori se si lamentavano sintomi influenzali di non sufficiente gravità; si è inizialmente ritardata l’adozione di zone rosse circoscritte alle zone aggredite dai focolai dell’infezione per giungere poi alla zona rossa generalizzata sull’intero territorio nazionale, con il famoso inseguimento dell’incauto corridore che si allenava solitario su una spiaggia invernale deserta; si è adottata una politica fortemente contraddittoria sulle scuole, culminata nel suo vertice più alto con l’inutile e dispendioso acquisto di banchi a rotelle che favorissero il distanziamento all’interno delle aule scolastiche; non volendo sottolineare gli immancabili scandali, forse non veri dato che se ne è persa ogni traccia nel mondo dell’informazione, sugli acquisti dei mezzi di protezione attraverso lucrose speculazioni di affaristi vicini alle stazioni appaltanti.

Complessivamente, l’impressione è stata che, nel primo momento, le persone siano state abbandonate al loro destino e la principale preoccupazione del Governo sia stata quella non di curare, ma di preservare le strutture sanitarie dal collasso e di ritardare, impedendo il più impossibile i contatti tra le persone, la diffusione del virus in attesa degli studi sulle cure possibili e sui vaccini utilizzabili.

E che nel caos e nella paura regnanti ognuno che riteneva di avere una buona idea e si trovasse in posizione di potere poteva metterla in esecuzione attraverso una struttura commissariale priva di controlli e di capacità di coordinamento, non guidata da alcuna strategia politica od operativa.

Come anticipato, errori che, oggi, alla luce delle conoscenze acquisite, possiamo definire grossolani e fonte di gravi danni, ma che in quel momento storico non era così semplice individuare ed evitare, con l’ovvia eccezione della censurabile condotta del nostro rappresentante nell’OMS che, come da italico costume, è rimasto a rappresentarci nella prestigiosa organizzazione senza che le nostre elite politiche, culturali, della comunicazione o della magistratura abbiano neppure ricordo, se non vago,  delle sue azioni, passato il primo, rapido, momento di formale, e non certo collettiva, indignazione.

Cosa abbiamo imparato da quegli errori ?

Anzitutto le cause strutturali degli stessi, quelle sulle quali si avrà il dovere di intervenire in un futuro che è già oggi:

1) La carenza di programmazione dell’emergenza sanitaria. La mancanza del piano epidemico aggiornato e la sua completa carenza di esecuzione ne rappresentano l’evidenza più forte;

2) La carenza della nostra normativa sulla gestione delle emergenze sanitarie. Tutte le libertà fondamentali sono state oggetto di incisione da parte del Governo, anche in materie dove esiste la riserva di legge. E non può essere certo dimenticato il fatto che il primo DPCM ( Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) fu emanato senza alcuna copertura parlamentare, neanche sotto la forma blanda del decreto legge: solo il richiamo forte di alcuni giuristi, pur se confinati nelle proprie abitazioni, ma che avevano possibilità tecnologica di comunicare, convinse chi aveva iniziato a gestire l’emergenza sanitaria come se desse disposizioni su luoghi privati e su propri dipendenti, a conformarsi alla realtà democratica che impone, in qualsiasi frangente, la legittimazione popolare, attraverso il Parlamento, dell’adozione di misure incidenti sulle libertà personali.

Iniziarono così ad affastellarsi Decreti Legge, uno dopo l’altro, alcuni dei quali venivano abrogati e superati ancor prima di essere convertiti in legge, in un caos normativo e disciplinare per cui, sostanzialmente, le persone si affidavano alle sintesi dei conduttori televisivi per comprendere cosa potevano o dovevano fare l’indomani.

Senza dimenticare il tema della tecnica di redazione dei provvedimenti, del tutto incapace di tradurre in concetti normativi consolidati e significanti le misure estemporanee che quotidianamente venivano emanate, stratificandosi senza ordine, dalle tante autorità che si ritenevano competenti ad adottarle ( Presidente del Consiglio, Presidenti delle Regioni, Sindaci dei singoli Comuni; Commissario per l’Emergenza, Ministro della Salute, Ministro dell’Interno, responsabili di Aziende Sanitarie Provinciali etc. ). L’assoluta carenza di giuristi nella cabina di regia della gestione della crisi epidemica, riservata ai sanitari, non ha consentito riflessioni adeguate su limiti e modalità, anche procedurali, di interventi di compressione dei diritti e delle libertà individuali forse necessari ma certamente di particolare forza che avrebbero richiesto una chiara e dettagliata regolamentazione che, peraltro, ne avrebbe decuplicato gli effetti positivi sperati, come accade con ogni normativa, sempre più rara, capace di dettare regole immediatamente comprensibili e prive di ambiguità su cosa fare e come farlo.

3) La carenza di adeguato senso del dovere da parte dei parlamentari. Anziché riunirsi in seduta permanente per affrontare, con la corretta legittimazione, i provvedimenti proposti o emessi dal Governo, i parlamentari hanno avuto paura del contagio e hanno ridotto la presenza istituzionale al minimo, secondo una turnazione di presenze concordata tra tutti i partiti che consentisse di rispecchiare, in proporzione notevolmente ridotta, la composizione politica del Parlamento.

L’abdicazione sostanziale del parlamento al proprio ruolo di garanzia ha comportato una gestione verticistica del governo della crisi proprio nel momento in cui più necessario sarebbe stato il controllo sull’operato dell’esecutivo da parte di quel Parlamento al quale la Costituzione affida la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo e dei gruppi.

4) La gestione paternalistica della crisi. Il Governo ha sottratto interamente al dibattito pubblico le proprie decisioni, tenendo segreti i dati sui quali quelle decisioni si fondavano e le riflessioni tecniche dalle quali scaturivano.

Il Comitato Tecnico Scientifico, come si ricorderà, riceveva e analizzava i dati dalle singole realtà territoriali, li elaborava e valutava secondo la scienza e coscienza dei singoli componenti e ne traeva suggerimenti per il Governo in ordine alle misure da adottare.

Sia il Governo, nei propri Decreti Legge, che il Presidente del Consiglio dei Ministri, nei propri Decreti, facevano puntuale riferimento ai dati elaborati e alle misure suggerite dal Comitato Tecnico Scientifico per dare motivazione alle limitazioni di volta in volta imposte.

Con un particolare, però, non di poco conto: che i verbali delle riunioni del Comitato Tecnico Scientifico erano coperti da segreto ( presumibilmente perché si riteneva che i dati o i suggerimenti avrebbero potuto creare allarme nella popolazione e provocare disordini), addirittura anche nei confronti dei parlamentari che, conseguentemente, votavano i provvedimenti ” a scatola chiusa”, tanto che tutte le misure adottate apparivano  – e in parte si sarebbero rivelate tali – essere frutto di capriccio o di preferenza personale, piuttosto che di meditata ponderazione tra costi e benefici sulla base di evidenze scientifiche controllabili e controvertibili.

Ho avuto il piacere di essere stato, con altri colleghi coordinati dalla Fondazione Einaudi di Roma, uno degli avvocati che hanno proposto impugnazione avverso il diniego apposto dal Governo a rendere pubblici i contenuti dei verbali del Comitato Tecnico Scientifico, ottenendo una significativa vittoria avanti il Tribunale Amministrativo del Lazio ed obbligando il Governo a consegnare e rendere pubblici quei verbali.

Una decisione dirompente, che avrebbe potuto ribaltare quelle che apparivano imposizioni a volte prive di senso in scelte oggetto di condivisione generalizzata o in momento di partecipazione critica alla lotta alla pandemia da parte dei cittadini, singoli o organizzati, e dei corpi intermedi nei quali si articola la nostra società.

Anche in questo caso, però, va registrata la deludente posizione adottata sia dai mezzi di comunicazione, che dopo un paio di giorni di prima pagina della notizia non hanno dato alcun seguito all’analisi di quei verbali e al rapporto tra dati elaborati e misure suggerite dal Comitato Tecnico Scientifico, da un lato, e provvedimenti adottati dal Governo, dall’altro; sia dalla comunità scientifica, non essendoci stata un’università, un centro di ricerca, un singolo studioso o ricercatore che, avendone le competenze tecniche, abbia preso cognizione del contenuto di quei verbali e abbia alimentato il dibattito pubblico sulla concreta efficacia delle misure adottate o sulla possibilità di affinarle o migliorarle.

Un silenzio imbarazzante per la democrazia, ancora maggiore se si pensa che chi, come noi avvocati ricorrenti, ha letto quei verbali ha compreso, pur senza le necessarie competenze scientifiche sanitarie, che in più di un’occasione erano stati adottati dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dal Governo misure che si discostavano da quelle suggerite dal Comitato Tecnico Scientifico.

In sintesi, dagli errori macroscopici commessi in un passato che, purtroppo, può ripetersi sappiamo di avere necessità e urgenza di adeguata programmazione tecnica delle possibili emergenze; di una cornice normativa adeguata alla loro ordinata gestione; di un ruolo non eludibile del Parlamento; e della necessità che alla gestione dell’emergenza partecipino, sulla base del pieno diritto alla conoscenza delle basi logiche, scientifiche e giuridiche dei provvedimenti adottati per superare quell’emergenza, tutti i cittadini, che, peraltro, nell’occasione hanno mostrato grande maturità ed un enorme senso civico, pur nella atmosfera di segreto e di incertezza nella quale sono stati ingiustificatamente immersi.

Una guida utile potrà essere l’agile volume curato dalla Fondazione Einaudi, e pubblicato da Rubettino, in italiano ed in inglese, “Il Vaccino della Ragione”, che raccoglie una serie di brevi interventi, compresi alcuni miei, contenenti riflessioni sulle lacune, le incertezze e gli errori nella gestione iniziale della pandemia; riflessioni che hanno il pregio di essere state svolte non alla comoda luce di quanto poi la scienza avrebbe scoperto, ma nell’immediato, mentre ci si trovava chiusi in casa con la stessa paura di tutti, ma con la capacità di non perdere la lucidità indispensabile sia a salvaguardare i principi sui quali si regge una società democratica, qualunque sia la crisi che affronta, sia ad adottare la migliore soluzione possibile nella situazione data.

Molte delle criticità, comprese alcune poi risolte dalle acquisizioni scientifiche successive, erano state individuate ed era stata offerta una visione alternativa, poi rivelatasi corretta, non da scienziati o competenti della materia, ma attraverso l’uso della logica comune, a riprova che il coinvolgimento nel dibattito pubblico di tutti i saperi, anche di fronte alle situazioni più insidiose, è sempre fonte di prezioso arricchimento per i tecnici della materia e per i decisori che abbiano l’intelligenza di ascoltare le voci eventualmente dissonanti.

Ultima veloce nota su un argomento controverso: il diritto alla conoscenza della conduzione e dell’esito delle indagini su fatti socialmente rilevanti.

Dopo oltre due anni dall’apertura, secondo le fonti giornalistiche, delle inchieste sulla gestione della pandemia e sulle speculazioni negli acquisti dei mezzi di protezioni non è dato sapere né quali conclusioni abbiano raggiunto gli inquirenti, né se abbiano dedicato la dovuta attenzione alle vicende.

Il che pone un problema di carattere generale, spesso guardato solo dall’altra parte della stessa medaglia, sul diritto dei cittadini a conoscere l’attività della magistratura, compresa quella inquirente, sui fatti di maggiore rilevanza e interesse sociale.

La visione parziale, pur doverosa, della tutela del “segreto istruttorio” e della reputazione dell’individuo sottoposto alle indagini, dovrà, infatti, un giorno, trovare bilanciamento con il diritto della collettività di valutare tempestività ed efficacia delle scelte operate dalla magistratura inquirente sui temi di indagine di particolare rilevanza sociale, che non possono essere sottratte al giudizio pubblico attraverso il semplice prolungato silenzio.

Imparare dagli errori del passato è indispensabile alla crescita di individui e corpi sociali.

Dimenticarli sol perché si è comunque scampati al rischio è il modo più certo per restare esposti al pericolo.

E a me sembra che quell’orribile periodo, fonte di tanta sofferenza, dolore e disagio, tutti noi stiamo provando a lasciarlo alle spalle, rinunziando a trarne qualunque utile lezione, pur di dimenticarlo e riprendere la nostra vita di ordinaria felicità e serenità.

E se per i singoli tale ricerca dell’oblio è più che giustificata, per chi ha, o ambisce ad avere, ruoli di responsabilità politica o sociale essa è un errore grave e banale.