Riflessioni a margine della Giornata Mondiale della Pace 2023 e del discorso di fine anno 2022 del Presidente della Repubblica Italiana
Ezechia Paolo Reale, The Siracusa International Institute for Criminal Justice and Human Rights
Giustizia, Pace e Libertà sono termini che, per quanto possa apparire sorprendente, non hanno significato e valore univoco, universale, come noi pensiamo e pretendiamo, ma assumono accezioni e significati diversi in base ai contesti culturali e politici nell’ambito dei quali vengono utilizzate.
Il 21 dicembre 2022 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è occupato per la prima volta della situazione creatasi in Myanmar (in precedenza Birmania) dopo il colpo di Stato militare del febbraio 2021, adottando una risoluzione, la n. 2669 del 2022, nella quale esprime profonda preoccupazione, tra l’altro, per le violenze contro la popolazione civile, il significativo numero di deportazioni di popolazioni civili, in particolare appartenenti alla minoranza Rohingya, e la detenzione illegale di molti prigionieri politici, compreso il premio Nobel Aung San Suu Kyi.
Il 24 novembre 2022 il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha istituito, con la risoluzione S-35/1, una missione internazionale d’inchiesta , che sarà presieduta da Ms. Sarah Ossain (Bangla Desh) e composta da Ms. Shaheen Sardar Ali (Pakistan) e Ms. Viviana Krsticevic (Argentina), per accertare le violazioni dei diritti umani in Iran correlate alle manifestazioni di protesta che hanno avuto inizio il 16 settembre 2022.
A prescindere dall’efficacia di questi strumenti nel reprimere violenze e discriminazioni odiose, spesso perpetrate nella plateale indifferenza della maggioranza degli “occidentali”, vi è un dato comune ai due provvedimenti, che balza agli occhi come significativo di una politica perseguita da alcune grandi potenze, alla quale l’occidente non ha voluto, erroneamente, sino ad oggi prestare alcuna attenzione.
Entrambi i provvedimenti, nonostante intervengano su questioni che a noi sembrano prive di poter essere viste o giudicate da angolazioni diverse da quella della più ferma condanna, non hanno avuto l’adesione di Cina, India e Russia che si sono astenute in Consiglio di Sicurezza mentre nel Consiglio dei Diritti Umani, con l’India ancora astenuta, la Cina ha votato contro l’adozione della Risoluzione. La Russia non ha potuto partecipare al voto essendo stata sospesa, in seguito alla guerra di aggressione portata all’Ucraina, dalle funzioni di componente del Consiglio dei Diritti Umani il 07/04/2022 con una decisione dell’Assemblea Generale (A/RES/ES-11/3) delle Nazioni Unite adottata a maggioranza con 93 voti favorevoli, 58 astensioni, tra le quali l’India, e 24 voti contrari, tra i quali, oltre la stessa Russia, anche la Cina.
Non è certo una novità. Un’analisi estesa delle Risoluzioni delle Nazioni Unite in materia di diritti umani e di giustizia internazionale evidenzia e conferma che l’approccio comune di queste tre potenze, che ovviamente non aderiscono allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, su tali terreni ha profonda diversità da quello occidentale.
Analoghe diversità, ma su basi motivazionali differenti, possono riscontrasi nelle posizioni delle nazioni arabe, il cui peso politico sul piano internazionale oramai va ben oltre la tradizionale influenza fondata sulle proprie risorge energetiche.
La Risoluzione sul Myanmar è stata votata dagli Emirati Arabi Uniti, unico paese arabo attualmente presente tra il 15 componenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma la Risoluzione sull’Iran ha registrato, tra gli altri, l’astensione degli Emirati Arabi Uniti e del Qatar e nessun voto favorevole dei paesi arabi attualmente presenti tra i 47 componenti del Consiglio dei Diritti Umani e nella decisione di sospendere la Russia da tale organismo Iran e Siria hanno espresso voto contrario mentre, tra i 197 paesi che compongono, con diritto di voto, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si sono astenuti, tra gli altri, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Giordania, Kuwait e Iraq.
Tale dato non è privo di significato: più volte, soprattutto Cina e Russia, hanno detto esplicitamente di non essere soddisfatte di quello che definiscono “ordine mondiale” fondato su valori, i diritti umani fondamentali di matrice occidentale, che favoriscono la preminenza politica degli Stati Uniti e più volte hanno fatto cenno al loro interesse ad instaurare un “nuovo ordine mondiale”, fondato su gerarchie diverse dei valori, senza che questi avvertimenti abbiano suscitato il minimo interesse o la minima reazione nel mondo occidentale, convinto che la supremazia morale delle proprie posizioni sia ragione sufficiente per considerare le posizioni delle potenze asiatiche mere rivendicazioni di potere, destinate ad infrangersi contro la solida roccia delle libertà politiche ed economiche che caratterizzano il mondo democratico e liberale e che ne garantiscono il benessere sociale ed economico.
Solo di recente, divenuta evidente l’importanza politica della presenza economica cinese nelle economie occidentali e, forse resi più consapevoli anche dalla crisi del gas russo, il pericolo di una dipendenza nei settori strategici da produzioni controllate da nazioni non culturalmente affini, si è prestata maggiore attenzione a questa contrapposizione latente, ma sempre catalogandola alla voce “voglia di conquista” o “imperialismo” e rifiutando di comprendere se, alla base, vi sono motivazioni e ragioni, anche sbagliate se si vuole, sulle quali è indispensabile confrontarsi, per evitare che il fossato tra culture si allarghi pericolosamente sempre di più.
Due mi sembrano i temi di sistema nei quali il solco è più evidente, ove valori che noi riteniamo fondanti altrove vengono rifiutati come negativi.
E per entrambi credo che abbiamo più di una ragione per riflettere sopra la nostra attuale capacità di affermare e difendere quei valori.
Il primo, ovviamente, è il tema della democrazia rappresentativa la cui crisi, nel mondo occidentale, è oramai un dato di fatto che non sappiamo bene dove ci porterà continuando a disinteressarcene.
Le democrazie rappresentative appaiono sempre più come oligarchie politiche e burocratiche non legittimate dal merito; le forze politiche sono interscambiabili, le alleanze variabili ed improbabili; anche il momento elettorale ha perso la sua atmosfera di sacralità, per diventare stanco adempimento burocratico, facilmente aggredibile da brogli e irregolarità, e terreno di scontro non tra idee, ma tra capacità mediatiche, peraltro falsate dall’incontrollabile ruolo, anche illecito, che può essere svolto sui social media da chiunque abbia interesse a influire sul risultato elettorale.
Il secondo campo di frizione, che è quello che desidero approfondire perché più interessante e meno visibile, è quello dei diritti umani.
Questo modello, che per anni abbiamo anche creduto che fosse giusto e importante “esportare”, imponendolo in altre realtà, mostra crepe e pericoli che possono convincere altri a ritenere che su di esso non possa basarsi un “ordine mondiale”.
Il mondo occidentale, e in parte tutto il mondo che esce dalla seconda guerra mondiale, poggia i suoi pilastri su una base comune: la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, quali riconosciuti da strumenti internazionali universalmente, a quel tempo, condivisi quali la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite senza alcun voto contrario, sebbene con la significativa astensione, oltre che del Sud Africa, la cui società era allora fondata sull’apartheid razziale, della Russia, allora Unione Sovietica, e di quasi tutti i paesi dell’allora blocco comunista sovietico (Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Bielorussia e Ucraina), da un parte, e dell’Arabia Saudita, nazione leader, ancor di più nel 1948, del blocco dei paesi arabi, dall’altra.
Tali scelte non dovrebbero stupire, atteso che gli elementi di fondo della Dichiarazione Universale sono tratti dalla dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776, dal Bill of Rights del Parlamento Inglese del 1689 e dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, nata durante la Rivoluzione Francese, documenti al cui interno innegabili erano i contrasti con la nuova Costituzione dell’Unione Sovietica ( in particolare in materia di libertà di espressione e di culto) e con l’impostazione teocratica delle nazioni musulmane ( in particolare in materia di diritto di uguaglianza e, ancora, libertà di culto).
Anche in nazioni che aderirono alla Dichiarazione Universale non mancarono perplessità e dibattiti interni anche aspri ed importanti, come certamente in Cina, ma anche in molti paesi europei nei quali più forte era l’influenza dell’ideologia comunista, dubbi in realtà mai sopiti e che, pur se non sotto i riflettori, hanno continuato ad essere presenti sino ad oggi nel dibattito accademico e in molti ambienti intellettuali (per l’Italia, ad esempio, possono esaminarsi le posizioni assunte da filosofi di livello come Giacomo Marramao o Costanzo Preve o, a un minor livello di approfondimento, il pensiero espresso dall’allora Ministro della Salute, on. Speranza, nel suo recentissimo saggio sulla pandemia, mai venuto alla luce, come è noto, perché ritirato poco prima della distribuzione).
Se lo Stato, secondo l’idea contenuta nella Dichiarazione Universale, e sviluppatasi sino ad oggi soprattutto nei paesi occidentali, non può arbitrariamente aggredire la libertà personale, la libera manifestazione del pensiero, la libertà di movimento e di associazione, la vita e la salute dei suoi cittadini, si avrà certezza, secondo la nostra cultura e la nostra sensibilità, che quello Stato, con tutti i difetti che potrà avere, resterà democratico e liberale.
Il disegno, giustificato dalla storia del XX secolo, è, quindi, stato sempre, e continua ad essere, quello di far progredire al massimo la tutela del diritto individuale rispetto all’aggressione o all’interferenza dello Stato e questo è stato lo sviluppo al quale tutti abbiamo assistito e partecipato: la tutela “passiva” del diritto individuale fondamentale dall’ingerenza dello Stato, non l’attuazione “proattiva” di tale diritto.
I benefici goduti dalle nazioni e dai popoli che hanno saputo coltivare con intransigenza il versante di tutela dei diritti umani fondamentali è talmente evidente, in termini di progresso civile, sociale ed economico, che sarebbe sciocco, più che superfluo, richiamarli.
La domanda da porsi, piuttosto, è perché nazioni e popoli che non hanno raggiunto quei livelli di progresso, soprattutto sotto i versanti sociali e civili, non hanno perseguito una linea d’azione che a noi sembra tanto evidente e naturale da non essere capaci di pensare che possano esisterne altre ?
La risposta può cercarsi nell’importante prolusione svolta il 25/02/2022 dal presidente della Cina Xi Jinping durante i lavori della trentesettesima sessione di Studio Collettivo dell’Ufficio Politico del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese e pubblicato, successivamente, nel giugno 2022, nel periodico ideologico ufficiale dello stesso Partito, il “Quishi”.
In tale discorso il presidente cinese, ribadendo una posizione non nuova sulla necessità che ogni popolo definisca il concetto di diritti umani nel modo più confacente alla propria cultura e alle proprie aspirazioni, non necessariamente facendosi imporre la “nozione borghese” di tali diritti proposta dall’occidente, ha rivendicato che i diritti umani prioritari, per l’idea che di tale nozione fa propria il Partito Comunista Cinese, sono quelli al sostentamento e allo sviluppo per perseguire i quali i diritti umani, così come intesi nel “modello borghese”, possono essere posti tra parentesi o sospesi, se le circostanze lo rendono necessario.
L’esempio, poco felice alla luce dei successivi sviluppi, proposto dal presidente cinese per evidenziare la superiorità del modello di diritti umani socialista rispetto a quello liberale è il contrasto alla pandemia, riuscito in Cina con la politica c.d. “ZERO COVID”, impossibile da attuare in occidente a causa della prevalenza delle libertà individuali sulle esigenze sociali.
La novità contenuta nel discorso del presidente cinese è quella della ricerca delle radici profonde che, a suo dire, legittimano la diversa nozione di diritti umani privilegiata dal Partito Comunista Cinese e che vanno identificate in una catena intellettuale ininterrotta che parte dalle posizioni di Confucio, passa attraverso le idee di importanti filosofi cinesi e giunge sino a Marx ed Engels.
La posizione del presidente cinese riprende il dibattito interno sviluppatosi al tempo dell’approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e, in particolare, il pensiero del filosofo Chiun-Shu Lo che sosteneva un approccio ai diritti dell’uomo conforme al confucianesimo e alla dottrina comunista e, quindi, basato sulla consapevolezza che le relazioni sociali e politiche si fondavano in Cina sul dovere nei confronti del prossimo anziché, come nel modello occidentale, sulla rivendicazione dei diritti individuali, approccio che rende incompatibile per la Cina la completa condivisione dei principi enunciati nella Dichiarazione Universale.
La rivendicazione della natura antica e profonda della nozione di diritti umani privilegiata consente, così, di affermare che la stessa non è una semplice opzione politica, ma il frutto dell’eccellente tradizione culturale cinese adattata alla realtà concreta della nazione e combinata con i concetti marxisti che costituiscono la linfa ideologica del Partito Comunista Cinese.
In occidente questi sviluppi non sono adeguatamente considerati, né si è avuta la capacità di valutarli unitamente all’appoggio della Chiesa Ortodossa russa alla politica militare di aggressione del presidente Putin che, sullo sfondo, ha lo stesso significato di ricerca di legittimazione per azioni che il “vecchio ordine mondiale” considera riprovevoli, e alle posizioni assunte dai paesi musulmani con la Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo adottata a Parigi nel 1981, preceduta da un intervento alle Nazioni Unite del delegato iraniano che definiva la Dichiarazione Universale un’interpretazione laica della tradizione giudaico cristiana che non avrebbe potuto essere attuata dai musulmani senza violare la legge dell’Islam, la Dichiarazione del Cairo dei Diritti Umani dell’Islam del 1990 e la Carta Araba dei Diritti dell’Uomo del 1994, poi emendata nel 2004, oggetto nel 2008 di puntuali critiche dell’allora Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite che ne evidenziò l’incompatibilità con il principio di uguaglianza in relazione agli aspetti attinenti ai diritti delle donne, alla quale ha fatto seguito l’adozione nel 2014 dello Statuto della Corte Araba per i Diritti del’Uomo, la cui istituzione sottolinea la piena autonomia della nozione islamica di diritti umani.
E questa carenza di attenzione continua a registrarsi nel mondo occidentale nonostante tali posizioni si riflettano, anche, in ben precise scelte politiche adottate nello scenario dei rapporti internazionali.
Basti pensare che il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, uno dei più noti trattati delle Nazioni Unite, adottato nel 1966 e nato dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, vede l’adesione di ben 173 Stati, ma annovera tra i 24 Stati che non vi hanno aderito la Cina, Cuba, Myanmar, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.
Per converso, d’altra parte, l’altro strumento nato dalla Dichiarazione Universale e adottato contestualmente al primo il 16/12/1966, e cioè il trattato delle Nazioni Unite noto come Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali vede l’adesione di ben 171 Stati, compresa la Cina, ma tra i 26 che non vi hanno aderito ci sono gli Stati Uniti.
Le posizioni opposte delle due grandi potenze, Cina ed America, restituiscono plasticamente, volendo porre a parte le scelte del diritto islamico, l’esistenza di due diverse nozioni di diritti umani, o meglio di due diverse scale di priorità tra i due gruppi di diritti umani, da una parte quelli civili e politici e, dall’altra, quelli economici e sociali.
Superficiale sarebbe, quindi, liquidare come ideologica la nozione socialista di diritti umani e rifiutare un confronto culturale e politico sui temi che la stessa oggi pone.
La pretesa superiorità della nozione liberale, alla quale fermamente credo, non può essere un dogma di fede, ma un percorso, favorito da quel confronto, di crescita culturale e sociale al quale non può sottrarsi il mondo occidentale, che deve rimettere in discussione la concreta evoluzione che nel mondo delle democrazie liberali ha avuto l’idea di diritti umani fondamentali per verificare se e quanto ci si è allontanati dal loro vero significato; se e quanto questo allontanamento ha significato maggior sacrificio, minore tutela o minore attenzione per i diritti sociali ed economici; se e quanto un’eventuale deriva individualista del tema della tutela dei diritti umani fondamentali sta ponendo in crisi quel modello dall’interno, esponendolo così al pericoloso ritorno del modello socialista che con la prevalenza delle esigenze collettive sulle libertà individuali privilegia, e legittima, i regimi autoritari e totalitari rispetto ai modelli di democrazia liberale.
Esiste da sempre, infatti, nel modello liberale una crepa, che oggi però si è allargata a dismisura e il cui risanamento è reso ancor più problematico dalla crisi della democrazia rappresentativa: è quello che, con felice espressione evocativa, alcuni hanno definito “il lato oscuro dei diritti umani” e che, in estrema sintesi, si può rendere come la necessità che uno Stato non si occupi solo di evitare la propria ingerenza sull’esercizio dei diritti individuali fondamentali, ma si occupi anche di garantirne il concreto godimento da parte dei singoli cittadini, non solo attraverso sempre controvertibili politiche economiche e sociali, ma ancor prima garantendo un ambiente sicuro dove esercitare quei diritti.
Sin da quando l’idea dei diritti fondamentali cominciava ad essere sistematizzata sul piano internazionale e nelle varie Costituzioni, pochi giuristi, ai quali non venne prestato ascolto, evidenziarono, infatti, che la tutela dei diritti umani non passa solo dal difenderli dall’aggressione dello Stato, ma anche dalla protezione che lo Stato deve assicurare sia a chi è molestato da altri privati, singoli o associati, nell’esercizio concreto di quei diritti, che, altrimenti, divengono illusori, sia, più in generale, alla concreta osservanza da parte di tutti i consociati delle norme che ne regolano la convivenza.
E’ il grande tema dell’obbligazione da parte dello Stato non solo negativa, astenersi dall’interferire sui diritti individuali, ma anche positiva, proteggere quei diritti dalle aggressioni non statuali: trascurato come estraneo al tema dei diritti umani, quindi, l’aspetto della sicurezza che ne garantisca l’esercizio è rimasto sempre nell’ombra, come un parente povero del quale vergognarsi, producendo un ambiente nel quale le libertà individuali sono rimaste a rischio, il loro concreto esercizio non è sicuro.
Deboli riflessi di tale duty to take action possono di recente rinvenirsi nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di violenza sulle donne e obblighi positivi dello Stato di predisporre adeguate e tempestive misure che impediscano la lesione dei diritti fondamentali dell’individuo da parte di soggetti terzi privati, in particolare, nel caso X e Y c. Paesi Bassi, (n. 8978/80), deciso il 26/03/85 in base a un principio poi seguito in numerose altre decisioni, compresa, su altro e più impegnativo versante, la nota sentenza Craxi c. Italia, emessa il 17/07/2003 (case n. 25337/1994), con l’attribuzione allo Stato, pur se indiretta, della responsabilità per una violazione commessa da un privato, ma resa possibile o probabile attraverso la negligenza o la benevola tolleranza dello Stato, compresa l’omessa adozione della cornice giudiziaria e normativa idonea a garantire i diritti convenzionali.
L’attenzione al solo versante della tutela dall’interferenza statuale, e non a quello della protezione dall’aggressione individuale o di gruppi organizzati, ha, infine, portato ad esasperare lo stesso concetto di diritto fondamentale, trasformandolo in una sorta di diritto alla felicità individuale per perseguire il quale spesso si dimentica che il soddisfacimento di un proprio diritto ha una soglia insuperabile, quella dell’invasione e della compressione del diritto altrui.
Si urla, quindi, a gran voce che lo Stato non può interferire e non può penalizzare determinati status o determinate scelte personali; non si riflette adeguatamente, anche, se quegli status rivendicati o quelle scelte personali adottate possano incidere negativamente su status e scelte da altri, altrettanto legittimamente, rivendicate e adottate.
Non si tratta più, in tali casi, di tutela di diritti fondamentali inalienabili, comuni a tutti, ma di scelte etiche e politiche su cosa preferire tra due diverse rivendicazioni.
L’incapacità di modernizzare il concetto di diritti umani fondamentali, adattandolo a una realtà diversa da quella nella quale hanno avuto origine, e la scelta di non limitarsi a tutelare e proteggere il nucleo duro, comune a tutti, del diritti umani fondamentali, sciogliendoli, poco alla volta, in casistiche minute che appaiono più scelte politiche di soddisfazione di esigenze individuali che principi fondanti la vita di una collettività, in uno all’equivoco di ritenere che esistano diritti senza doveri, che ad essere rivendicato possa essere il proprio diritto alla felicità, e cioè il proprio “capriccio individuale”, non solo non vengono compresi nelle realtà che hanno seguito un percorso culturale, politico e istituzionale diverso da quello occidentale, ma vengono da esse rifiutati e combattuti come elementi di possibile disgregazione della società e dei contratti sociali che ne stanno alle basi.
E in assenza di una pronta correzione della “rotta occidentale”, non tutte le critiche e i timori che provengono sia dall’esterno che dall’interno, possono dirsi manifestamente infondati.
Noi continuiamo a non tenere in considerazione che la politica internazionale sui diritti umani e sulla giustizia internazionale va avanti da moltissimo tempo senza il voto favorevole di Cina, India, Russia e, spesso, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, come se la circostanza fosse indifferente per le magnifiche e progressive sorti dell’occidente liberale e, con esso e dietro di esso, del mondo intero.
Ma non è così, e forse dovremmo provare a svegliarci da quest’illusione riprendendo nei luoghi del pensiero e in quelli dell’azione politica, alla luce delle sfide che pone la modernità, l’elaborazione del tema dei diritti individuali fondamentali e della democrazia rappresentativa per giungere preparati all’inevitabile confronto, o scontro, con modelli diversi di governo e di affermazione dei diritti umani che si stanno rafforzando, complice l’inerzia intellettuale e politica del mondo occidentale, in genere, e di quello europeo, in particolare.
Non possiamo più fare a meno di riportare la declinazione del tema dei diritti umani all’interno dello schema dei diritti condivisi dall’intera comunità e fondanti un sistema di valori comuni e il suo modello di governo democratico.
Non possiamo fare a meno di riconoscere l’importanza della sicurezza per la concreta fruizione da parte di tutti dei propri diritti fondamentali.
Non possiamo consentire che la giusta scelta di porre i diritti umani fondamentali al vertice della gerarchia dei valori comuni abbia come necessario corollario il sacrificio dei diritti economici e sociali.
Non possiamo più permetterci un modello di democrazia rappresentativo viziato dalla cesura sempre più netta tra rappresentanti e rappresentati e dalla distanza sempre maggiore delle comunità dalle decisioni che ne regolano la vita.
I forti richiami del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, contenuti nel suo discorso di fine anno 2022, a non contrastare il futuro, ma a governarlo; a difendere ad ogni prezzo la libertà; a garantire la più vasta partecipazione, soprattutto dei giovani, ai processi decisionali interni propri dei modelli di democrazia liberale e, in genere, a tutelare e rispettare il valore della democrazia rappresentativa, che risiede nel potere popolare diffuso; e ad investire sulla conoscenza e sulla competenza, possono e devono agevolmente essere declinati anche all’interno della difesa, promozione e sviluppo dei modelli di democrazia liberale e dei valori che li fondano, a partire dalla tutela e dalla protezione dei diritti umani fondamentali individuali.
E’ un quadro che richiama con immediatezza la battaglia iniziata da Marco Pannella e Cherif Bassiouni, oggi proseguita con convinzione da tanti altri protagonisti, illustri ed oscuri, per l’affermazione del Diritto alla Conoscenza come diritto umano di nuova generazione, essenziale per creare nel mondo tecnologico e globale di oggi quella rete di protezione per i diritti individuali e per la democrazia liberale che è posta in serio pericolo non solo dal ritorno prepotente di minacce esterne che si sperava fossero state superate dalla storia, ma anche, al suo interno, dall’approccio mercantile e ludico ai meccanismi che garantiscono la rappresentanza elettorale e dal mancato ammodernamento di un sistema di tutela dei diritti individuali nato in un mondo radicalmente diverso.
Una battaglia che non è più isolata e che ha portato anche all’adozione da parte dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europea di una Risoluzione (2382/2021) e una Raccomandazione (2204/2021) e, nel giugno del 2022, all’approvazione di analoga Risoluzione da parte della Commissione Straordinaria perla Tutela e la Promozione dei Diritti Umani del Senato della Repubblica Italiana che contengono gli elementi da innestare nel nostro sistema di valori per consentire di modernizzarlo e attualizzarlo e le cui attuazione e implementazione – su tutti i versanti e in tutte le declinazioni che rendono il Diritto alla Conoscenza capace di realizzare un più moderno, solido ed efficace modello di democrazia liberale, restando fortemente ancorato al valore fondante e primario della libertà – dovrebbe costituire impegno di ciascuno di noi, ai diversi livelli di responsabilità politica, sociale, culturale ed economica nei quali operiamo.
E’ il tempo, infatti, di evadere il duty to take action o, se si preferisce, la responsability to protect; il tempo di affermare e promuovere, in tutte le sue declinazioni, il diritto alla conoscenza capace di disegnare, attraverso la trasparenza, la partecipazione dei corpi sociali, il dibattito pubblico animato da soggetti qualificati dalla formazione culturale diffusa, un modello moderno di democrazia liberale che non si discosti, ma anzi riaffermi con forza la prevalenza del valore della libertà sugli altri valori sociali offrendo un modello decisionale capace di creare nella società coesione e non divisione, di restituire in concreto al popolo il potere che in democrazia gli appartiene; è il tempo di una transizione che non sia solo tecnologica, energetica ed economica, ma che sia anche valoriale, sia anche riaffermazione in chiave contemporanea di valori e modelli di governo che hanno garantito una qualità della vita alla quale altri popoli, anche se non i loro governanti, aspirano e per la quale molti, giovani e meno giovani, non esitano ad esporre al pericolo anche la propria vita.
E’ il tempo, in estrema sintesi, se non vogliamo che diventino semplici ricordi del passato, di traghettare le nostre nozioni di diritti umani fondamentali e di democrazia liberale verso un futuro che è già alle porte.